Diario

Diario di un desiderio


(Illustrazione di Anna Formilan)

- In questa sezione del blog trovate pubblicato il diario che ho scritto durante il mio percorso di PMA - Lucia 

Se desiderate informazioni sull’albo illustrato “Storia di un bambino al microscopio” che racconta la PMA ai bambini, le trovate tra le pagine del blog. A breve il libro sarà in vendita online e in libreria.

Scrivo diari e lettere da quando ho 13 anni.
Praticamente tutti quelli che mi conoscono hanno una mia lettera scritta a mano nel cassetto.
O l’hanno buttata via, ma comunque l’hanno avuta.
Ho scritto ad amici, ad attori più o meno famosi, a sconosciuti.
Ho persino mandato una lettera ai giocatori dell’Italia quando hanno perso i mondiali nel ’98.
Che non mi è mai importato niente del calcio, ma dev’essere stato l’unico mondiale che ho seguito, a 17 anni, ed ero sinceramente dispiaciuta pensando a come si sentissero loro ad aver perso (!!).
Perlopiù scrivo per me, per mettere i pensieri in fila, per nominare le cose.

Questo diario invece non è solo per me.

È per quelli che almeno una volta nella vita hanno chiesto ad una coppia: “ma voi cosa aspettate a fare un figlio?”
Per quelli che non trovano le parole per raccontare la loro faticosa voglia di essere genitori.
Per quelli che rispondono ai problemi degli amici con: “andrà meglio la prossima volta”.
Per quelli che si vergognano, che si sentono dalla parte sbagliata, in ritardo, difettosi.
Per quelli che sanno che i bambini non li portano le cicogne ma fanno finta di non sapere che a volte nascono in una provetta.

Ottobre 2017

Il giorno in cui Fedez e la Ferragni annunciano al mondo che aspettano un bambino, io ho la conferma che i miei ovociti sono ridotti ai minimi termini.
La mia pochissima riserva ovarica, sommata ai pochissimi spermatozoi di mio marito, ci restituisce il quadro di una perfetta compatibilità di coppia… affini anche nella nostra povertà riproduttiva.
Che cosa romantica.

Al primissimo esame del sangue ci andiamo insieme.
Tra le mani ci ritroviamo un bellissimo bouquet colorato di più di una dozzina di provette che sembra debbano analizzarci tutto il sangue dei prelievi che non abbiamo fatto nei nostri più di trent’anni di vita.
L’infermiera ci sorride e ci dice “ah beh ci rivedremo tante altre volte”, come se non ci fosse ancora chiaro che il percorso che ci attende sarà lungo.

Provette, ricette, referti, tutto in abbondanza: un’enciclopedia di impegnative rosse scritte a mano che farebbe invidia a chiunque.
Traccio una griglia/calendario per gli esami e le visite da fare: una colonna per me, una per lui e poi una con  gli appuntamenti di coppia. Un po’ per non dimenticare niente e un po’ per soddisfare la mia parte da organizzatrice che gode nell’avere sott’occhio il disegno di quello che ci aspetta, come se mettendolo in colonna facesse meno paura.

A ottobre sono in congedo matrimoniale.
Ma non avevamo detto che non ci saremmo sposati?
No, si era detto che ci saremmo sposati se avessimo avuto un figlio.
E siccome il figlio non arrivava, abbiamo deciso di sposarci ugualmente.
Per sentirci “famiglia”. Se non possiamo essere famiglia in tre, o quattro, accontentiamoci di essere famiglia in due.
Niente viaggio di nozze, solo un paio di week end, così durante la settimana posso passare le giornate al telefono con i centralini di tutte le strutture ospedaliere di Milano città per prenotare gli esami.
In pochi giorni divento espertissima, so tutto sui tempi di attesa degli esami e anche sui tragitti dei mezzi pubblici per raggiungere ospedali, centri convenzionati, ambulatori privati.
Ma anche delle pasticcerie vicine agli ospedali per fare colazione dopo gli esami del sangue. La mia preferita è quella che fa una brioche con la marmellata di albicocche artigianale che sembra precisamente quella di mia nonna.
 
Procreazione medicalmente assistita. PMA.
Che belle parole in fondo. Sono felice che la parola “procreazione” abbia sostituito “fecondazione o inseminazione”…
“Procreare” ha in sé qualcosa di magico, tribale, trascendentale e -perché no- divino.
E comunque non realizzi davvero cosa sta per succedere finchè non varchi la soglia del corridoio che in alto ha la scritta “Procreazione medicalmente assistita” ma sotto si sente in dovere di specificare “Centro sterilità”. Quello è.

Qui non c’è il “triage”, c’è uno sportello con dietro l’ufficio del signor Angelo.
Un omino discreto, impassibile, che si prodiga per darti appuntamenti e spiegarti come prendere quelli che non ti può dare lui. Pacato, preciso, un volto che diventa subito familiare e vorresti ti chiamasse per nome. Lui che sa le vicende di tutti, perché i dottori cambiano ad ogni appuntamento, il signor Angelo invece è sempre lì che ti aspetta, granitico, non lo sostituisce mai nessuno.

Novembre 2017

In due settimane vediamo due genetisti, tre ginecologi, un andrologo, lo psicologo ce lo consigliano, ma per quello prendiamo tempo.
Parliamo con un biologo e un numero precisato di ostetriche e infermiere.
La mia infermiera preferita assomiglia a un’attrice di Tutti pazzi per amore, è molto molto simpatica, fa un sacco di battute mentre scrive i nostri nomi sulla lista di attesa.
La lista di attesa è un librone scritto a mano, a penna. Che non ci si crede ma è davvero così.
Noi siamo segnati come priorità vuol dire che più o meno in tre mesi dovrebbero chiamarci.

Arriva il giorno dell’operazione surgelati.
La crioconservazione.
È abbastanza affascinante pensare che in questo momento nel freezer della Mangiagalli ci sono sette provette di bambini potenziali che non sapremo ancora per un bel po’ che fine faranno. Intanto sappiamo che sono lì… un po’ mi rassicura sapere che sono al sicuro, un po’ mi inquieta non sapere come andrà a finire, per quanto ci dovranno rimanere.

Affrontiamo tutto questo come una specie di gioco dell’oca… Quanti esami ti mancano, qual è il prossimo appuntamento, prova di coppia, appuntamenti singoli, tu che valori hai, ripassa dall’accettazione, casella nera: fai rifare la ricetta, ritira il dado, stai fermo un giro fino al prossimo referto.
E ogni giorno che passa penso che sia l’unico modo sensato per affrontare un percorso che ha del surreale.
Surreale perché la scienza ci permette di provare qualcosa che la natura non ci dà.
E qualche domanda sulla legittimità di tutto questo uno se la fa anche.
Riflessioni sparse sul diritto alla genitorialità….
Magari tra sei mesi mi troveranno a scrivere nei blog che imperversano sul tema, perché chi lo sa poi a un certo punto come si reagisce, ma io auguro me e a mio marito di non entrare nel vortice dell’ansia, dei luoghi comuni, dei consigli tra aspiranti mamme, perché quel poco che ho letto spulciando nel web mi ha lasciato un gran senso di angoscia … non è confortante e non è neanche sano per la coppia a mio parere.
Quello che penso oggi, a cinque mesi dalla scoperta della nostra situazione, è che faremo alcuni tentativi, vicino a casa, nei tempi che la clinica mi darà.
Non cercheremo altri ospedali, altri specialisti, altre città.
Ci hanno detto che abbiamo il 20% di possibilità.
Quindi io compro diciamo una manciata di biglietti di questa lotteria e aspetto l’estrazione.
Continuerò a vivere le mie ricche giornate nella bellezza di una quotidianità familiare che ho scelto, che abbiamo scelto e che ci siamo regalati. Io me lo auguro davvero. Ci auguro di essere felici tra un anno come oggi, tra un anno perché a quel tempo sapremo più o meno come sono andate le cose.
Ci auguro che l’idea di un figlio non diventi un’ossessione.
Ci auguro che il senso della nostra relazione sia nella nostra relazione e non nella possibilità di procreare.

Dicembre 2017

Il corso di preparazione. Ci accompagnano nei sotterranei dell’ospedale dove c’è l’aula universitaria, un posto molto poco accogliente. Sono tutte coppie ma io sono da sola, per la teoria non è così indispensabile essere in due! In un’ora e mezza e 20 slide ecco svelati tutti i dubbi sulla pma. Qualche dato in percentuale incoraggiante, ma la frase più ripetuta come un mantra è “non bisogna essere né troppo pessimisti né troppo ottimisti”. Sono pronta.

Mi sono un po’ commossa la settimana scorsa, quando una dottoressa mi ha raccontato che lei ha avuto un figlio dopo sette anni, che tutto può succedere, che bisogna stare tranquilli e farsi aiutare. Mi sono commossa perché mi raccontava della sua vita e mi dava consigli come una mamma, un’amica, ed era la seconda volta che mi vedeva e solo per un cazzutissimo pap test. Mi sono commossa perché mi  è sembrata incredibilmente ottimista e so che bisogna andarci piano…

Forse il momento più triste di questi mesi è stato l’inizio, quando ho visto il mio non ancora marito triste perché sembrava che la nostra condizione dipendesse da lui.
Ho desiderato che non fosse un problema suo, perché non volevo che si sentisse in colpa.
Che poi questa storia del senso di colpa è una maledetta eredità che vorrei ci scrollassimo tutti di dosso.

Poi ci sono stati anche i pensieri oscuri, in quelle notti in cui ti chiedi anche cosa sarebbe successo se fossi rimasta con quel tuo ex che due figli, quando pensi a tutti gli uomini che hai incrociato e pensi che hanno tutti avuto figli. E un po’ allora ti chiedi anche se proprio tu ti sei presa quello “difettoso”. Si lo so che è un pensiero bastardo, ma è un percorso fatto anche di questo, di ombre che ti si insinuano nello sguardo.
Per questo è un po’ un sollievo quando scopriamo che il problema è di entrambi. Da una parte significa che la strada sarà più difficile, ma almeno non ci sarà uno dei due carico di questa responsabilità e ce la possiamo giocare alla pari.

Gennaio 2018

Quasi un mese al pre-ricovero finalmente. Conto i giorni. 

Non vedo l’ora sia tra tre mesi così saprò come è andata a finire.

Penso che anche se rimanessi incinta poi ci saranno le ansie della gravidanza, la paura che succeda qualcosa durante, la paura che succeda qualcosa al parto… come se sapessi che comunque avrò sempre la paura con cui fare i conti…

E intanto cerco di distrarmi con un “piano b” nel caso in cui il progetto “forno” -come lo chiamo io- non andasse in porto.
“Progetto forno” per l’idea che se andrà bene ospiterò al caldo nel mio “forno” un piccolo uovo fecondato, in attesa di vedere se diventerà un bambino.
Forse a ripensarci più che “forno” è un po’ più “cova” delle galline… ma insomma ormai con gli amici lo chiamo così.
Sì perché lo chiamo, ne parlo, io con i miei amici.
Perché no? Quanto sarebbe più semplice se chi affronta questo percorso potesse almeno togliersi di dosso quella sensazione di non poterne parlare.

Ma comunque, torniamo al “piano b”.
Vietnam, Giappone, Scozia, Stati Uniti… Mi immagino tutti i viaggi che vorremmo fare, mi immagino quando programmarli, come programmarli.
Leggo, studio calendari, pianifico partenze. Un modo per non essere “qui ed ora” ma avere un pensiero che vada un po’ oltre.

Intanto mi districo tra virtuosi equilibrismi per incastrare appuntamenti visite esami controlli iniezioni a ore prestabilite …
tutto non programmabile, tutto all’ultimo momento, dover dipendere dal proprio ciclo mestruale, dalla natura che ti rimette in qualche modo al tuo posto, dalla conta degli ovociti e della loro misura…
l’impossibilità di organizzare la mia vita viaggi lavoro tempo libero.
Le bugie da raccontare a colleghi e parenti – perché sì, ne parlo ma non proprio con tutti, più che altro per non sentire il peso di chi ti guarda e sembra aver scritto in faccia “come va? Le terapie? Fanno effetto?”  e a quel punto oltre alla tua tristezza dovresti leggere anche quella nella faccia di chi ti vuole bene o l’imbarazzo di chi capisce di aver fatto una domanda che non doveva –.

Un po’ odio tutti miei ex perché hanno avuto figli e perché non hanno dato un figlio a me quando ero più giovane. Lo so che è un pensiero idiota e che probabilmente adesso sarei molto infelice, però è un pensiero che -solo ogni tanto- riaffiora.

Ma soprattutto vorrei che la gente la smettesse di dire “Adesso tocca a te! Quando aspetti a fare un figlio? Meglio che lo fai subito! Se non hai figli non puoi capire. Ma sei incinta?” e via dicendo. Penso a quante volte ho detto anche io queste cose in passato e mi chiedo perché sia così indispensabile parlare in continuazione della possibilità di fare figli o meno.
È quasi un argomento necessario in qualsiasi conversazione superficiale, come parlare del tempo, peccato che ci siano dietro delle situazioni che non è detto si vogliano condividere con l’intero mondo.

“Ma non è che una donna si realizza solo con i figli” certo, verissimo. Ma infatti io non ho mai desiderato un figlio per realizzarmi, cosa posso dire, per me è sempre stato un desiderio naturale e punto.

Ma soprattutto mi chiedo: quanto avrei potuto risparmiare in pillola e preservativi?!

Febbraio 2018

Il concerto di Jovanotti la sera prima. Fanculo al prericovero.
Il concerto inizia così
“In questa notte fantastica
che tutto sembra possibile
mentre nel cielo si arrampica
un desiderio invincibile”

E così sia.

Il prericovero altro non è che una sfilza di esami che ti fanno tutti in una volta, ma è anche quel momento preciso che accorcia le distanza con la data di inizio delle terapie ormonali.

Marzo 2018

Il foglietto illustrativo delle iniezioni che mi devo fare da sola è più grande e più complicato del foglio di montaggio dei mobili Ikea.

L’ostetrica simpatica. “ah con quella bella pancia a budino signora mia non sentirà niente quando entra l’ago. Poverine quelle magre con quelle pancette striminzite.”

La maga. L’amica che il giorno che ti arriva il ciclo ti sogna e sa che aspetti che arrivi per iniziare la terapia. Empatia femminile.

Prima sera di iniezione. Scazzo e nervoso con mio marito mentre prepariamo la miscela. Forse meglio così. Pochi convenevoli. Mi chiudo in bagno da sola e via.

Fatta la prima puntura in pancia è tutto in discesa. Me le faccio da sola perché voglio essere indipendente e anche per conservare un minimo di pensiero non medicalizzato sul mio corpo, soprattutto agli occhi di mio marito.

Il giorno prima del pick-up.
- E io che ho sempre parlato di “pick-up” e “transfer” solo pensando agli artisti da andare a prendere e portare agli aeroporti! -
Mi fermo a vedere una pianta piena di fiori rosa in questa primavera milanese in ritardo. Si affaccia su una fontanella con la statua di un santo. Alzo lo sguardo e vedo la chiesa di mattoni là in fondo. S. Antonio da Padova. Il pensiero è subito alla nonna Pinuccia che quante volte ci ha affidati “al santantonio”. Non posso non entrare. Esco con un rametto di ulivo, con il sorriso e con la sensazione che è stata la nonna a chiamarmi per salutarmi il giorno prima del ricovero.

Il corridoio della clinica è pieno di foto di neonati, di famiglie che ce l’hanno fatta.
Che sarà pure di buon auspicio ma è anche un po’ di cattivo gusto. Cioè ce la fanno in tanti ma tu no… che poi sono anche quasi tutti gemelli nelle foto e ti viene anche un po’ di ansia.

Non ho fatto le tonsille e neanche l’appendicite, non ho grandi esperienze di ricoveri da richiamare alla memoria se non quando avevo 5 anni ed ero in ospedale con mio papà, ma di quella mia unica notte in ospedale ricordo solo di avergli rovesciato un bicchiere d’acqua addosso. Eppure eccomi qui. Dai almeno non sono qui perché sono malata, potrebbe andare decisamente peggio.

Io ci ho pure fatto un esame di psicologia clinica per studiare il rapporto medico-paziente ma queste infermiere cosa sanno di quello che ho studiato io?
Cioè, sono anche gentili però le ore di attesa sembrano eterne e non sapere cosa succederà passo dopo passo mi snerva. Camice, flebo, prelievo, altra flebo, puntura, ultima flebo, andiamo. Basterebbe saperlo. Conoscere con precisione i gesti e i momenti della procedura.
O basterebbe lasciare mio marito qui vicino a me chissà che palle si sta facendo al piano di sotto per 4 ore.

Scoprirò poi che nel frattempo lui per ottimizzare è pure andato in ufficio e tornato giusto in tempo per consegnare il suo materiale fresco appena prodotto nel bagno dell’ospedale! Beato pragmatismo maschile.

Sei lì nel letto di ospedale e ti chiedi se ha senso mettere in piedi tutto sto casino per provare a fare una cosa che dovrebbe essere naturale.
Arriva puntuale anche il foglio di dimissioni che non perde l’occasione per ricordarti che la tua mezza giornata in ospedale è costata alla Regione 2.000 € (giuro che per pranzo mi hanno dato solo un panino con il prosciutto, non ho mangiato caviale!) e tu anche solo per un attimo pensi a cosa avrebbe potuto farci di più utile la Regione con quei 2.000 €.
Per fortuna la mamma con il suo pensiero matematico da ragioniera ti ricorda che con tutte le tasse che versi in realtà te la sei più che ripagata quella prestazione.

Primo pick-up. Due ovociti.
In sala d’attesa c’erano donne che raccontavano di averne fino a 20.
Capisco subito che “due” non è un buon numero.
Il giorno dopo, la telefonata.
Erano due ma uno si è deteriorato subito, l’altro non si è fecondato. Al telefono la biologa si dispiace eccetera eccetera.

E io che stavo già pensando al transfer, quando sarebbe stato, come sarebbe stato, invece non mi ci sono nemmeno avvicinata.

Ho aspettato 45 minuti in ospedale oggi, ma poi è arrivato niente meno che il primario.
Vuol dire che siamo un caso importante. Mi dice testuali parole lei è giovane per fermarci al primo tentativo però se il secondo avrà gli stessi risultati le dico che ci fermeremo lì.
Così.

La bellezza di mio marito che capisce che oggi è una giornata di merda e mi porta a vedere il tramonto in spiaggia a 300 km da qui.
E cantare Albachiara a squarciagola in macchina.

Aprile 2018

“Vedrai che andrà bene”, “il prossimo tentativo”, “quando non ci pensi”…
e poi tutti a raccontare dell’amica che è rimasta incinta a 50 anni, di quella che ha adottato e poi ha scoperto di essere incinta e via così.
Ora, visto che le probabilità che ho sono le stesse di vincere la lotteria comprando solo un paio di biglietti, non è questione di ottimismo, è che uno deve anche vedere la realtà per quello che è.
Non sono mai stata brava con i numeri, men che meno con il calcolo delle probabilità, ma non ci vuole un nobel in statistica per capire chiaramente che la percentuale di riuscita è davvero molto bassa.

In queste settimane la mia vagina l’hanno vista un po’ tutti.
Ora me la vorrei riprendere almeno per un mese. Alla prossima.

Chi parla di destino, disegno, fato, progetto divino… non so… per me è un po’ sfiga sinceramente. Che poi possa essere un’opportunità è un altro discorso, lo può diventare forse.
Ma comunque è sfiga.

E quella che ti vuol far parlare con l’amica che ha fatto l’eterologa, e quella che consiglia la naturopatia, e poi c’è chi ti dice che c’è l’adozione…
certo, potrei passare i prossimi 10 anni a star dietro a tutto questo, sono ancora abbastanza giovane del resto. Ma che dieci anni sarebbero? Non voglio accanirmi sfruttando tutte le possibilità che la scienza offre. Mi dà tre tentativi. Mi prendo questi. Non voglio crescere a tutti i costi un embrione di un altro per un capriccio.
L’adozione è un’altra storia. Non cerco giustificazioni. Penso solo che per quella ci vogliano delle risorse personali, economiche, sociali, lavorative che noi non abbiamo, è una scelta grandissima e stimo chi la fa, ma penso che non sia percorribile per noi.

 A volte basterebbe che invece che dare consigli la gente si limitasse a dire eh sì bella sfiga, o tutt’al più  mi dispiace. O portarti a bere una birra. Quella sì che sarebbe empatia.

 
Maggio 2018

Il secondo tentativo e la gente che parla in sala d’attesa come se fossero tutti amici… in realtà tanta invidia e la sottile speranza di sentirsi raccontare storie peggiori della tua.
Io taccio.
Io, che in coda alle poste vorrei organizzare contest di improvvisazione  teatrale, flash mob, dibattiti, in questa occasione me ne sto zitta, vorrei non avere nessuno intorno e non ho la minima intenzione di socializzare.
Me ne sto qui in attesa in questo tempo sospeso rincorrendo i pensieri che scivolan qua e là, tra le mani un giornale o un libro che mi riporterò a casa intonso perchè non riesco a concentrarmi nemmeno sul titolo.

Intanto dal 20% siamo passati a una probabilità del 5-10%, così dicono le carte dell’ospedale.

Mio marito è via per lavoro, vado in ospedale da sola che tanto in fondo è tutta una lunghissima menata che al 99% si deve sbrigare la donna.
Andarci senza di lui mi fa sentire un po’ triste e molto sola, ma anche molto forte.

Almeno la seconda volta conosco la procedura, sono più preparata, forse anche per questo sento meno male.
La mia vicina di letto ha fatto il transfer il giorno del mio pick-up.

Beata lei – penso – chissà se io questa volta ci arrivo.

Due ovociti anche stavolta. Solo due.

Un’amica che mi viene a prendere in macchina all’ospedale, un’altra che dorme da me per non lasciarmi sola che sì non è un intervento però insomma…

Il giorno in cui aspetti la telefonata del biologo che ti dice così dalla cornetta com’è andata.
Vorrei compagnia, ma vorrei anche stare assolutamente da sola, essere assolutamente da sola quando mi chiameranno.
Spero mia mamma non venga a trovarmi, ma se verrà, farò finta non sapere ancora niente e lei si metterà a stirare e cucinare per me.
Nel rispetto dei ruoli di sempre, senza troppi sentimentalismi.

Che poi dirlo alla mamma forse è la cosa più difficile. “Sai mamma, io non sarò mai mamma” e questo rapporto tra me e te oggi non potrò averlo con nessun altro al mondo.

Anche questa volta i due ovociti non si sono fecondati. Per scrupolo mi dicono che li tengono in osservazione un’altra notte.
Me li immagino lì, sperando che siano solo molto pigri e molto in ritardo.
Invece niente.

Questo percorso ti insegna l’attesa. O almeno provi a starci in questa attesa tra una visita e l’altra, tra una tappa e l’altra, tra un pensiero e un altro.
Ti costringi a guardare le cose una per volta e vedere “come va” e tieni stretti i pensieri che corrono avanti nel tempo.

Questo percorso ti insegna a guardare con più rispetto le decisioni altrui. A non avere giudizio su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. A capire che ognuno si sceglie il suo modo di famiglia come vuole ma soprattutto come può, come la vita decide per lui.

La seconda volta ci voglio pure mio marito a sentirmi dire che è andata male che l’altra volta ci sono andata da sola.
Mille pensieri nell’attesa. Se ci propongono un terzo tentativo lo facciamo a settembre, si dai, godiamoci le vacanze, almeno quello. Ho passato l’ultima settimana a pensare esattamente come incastrare il terzo tentativo con il lavoro, quali permessi chiedere, come organizzare le ferie.
Tempo perso.
Non ce lo propongono nemmeno il terzo tentativo che ci spetterebbe per legge.

Non ci riceve il primario questa volta, ma una dottoressa bionda che ci dice di considerare l’adozione o l’eterologa, e che per l’eterologa ci consiglia di andare fuori dall’Italia. Aggiunge che le dispiace. Il tutto dura si e no due tre minuti e ci dà una carta che aveva già stampato con scritto proprio “eterologa” o “adozione”. Cioè non è stato un dialogo, ci ha messo davanti una carta che aveva già preparato, noi non abbiamo potuto dire nulla.   Che poi, certo, cosa vuoi dire se l’ospedale decreta che la tua è una missione impossibile non ti viene al momento da puntare i piedi e reclamare il terzo tentativo che ti spetta di diritto.

Segue week end scacciapensieri. Niente tramonto al mare stavolta, optiamo per terme e vino in Piemonte. Dai, se ogni volta che va male qualcosa ci ritagliamo il tempo per andare via, tutto sommato ci prendo gusto.

Nel frattempo le parole “eterologa” e “adozione” risuonano nelle nostre giornate. Io all’adozione un po’ ci penso anche, ma so che mio marito la esclude categoricamente.

Leggo un po’ di cose sull’eterologa. Eppure io che sostengo le famiglie arcobaleno mi faccio un sacco di domande ora che tocca me e non mi convince più così tanto.
Cerco di capire in Italia dove si può fare l’eterologa e scopro una realtà molto acerba e intricata, con gli istituti privati che spendono grandi promesse e gli istituti pubblici che arrancano senza capire esattamente se e quando davvero si potrà fare nel nostro paese.
Perché scopro che tecnicamente si può fare, ma non ci sono donatori. In Italia non potrebbero essere retribuiti come avviene in altri paesi, e anche se ci fossero comunque nessuno è ancora organizzato con delle “banche biologiche”.
Anche solo reperire informazioni in rete è abbastanza complesso.
Leggo anche svariate testimonianze di donne che si sottopongono a trattamenti “per amore”… persone già mamme magari che vogliono solo dar la possibilità ad altre di divebtare madri. È uno scenario molto difficle da comprendere, io non so se affonterei tutto questo solo per filatropia.

Per donare le donne in Spagna prendono 1.500 €. Quando si dice le galline dalle uova d’oro.

- Si ma comunque non è figlio tuo.

Per metà si, userebbero lo sperma di mio marito.
Lo sentirei figlio mio solo a metà?

- Ma se ti danno l’uovo di una matta?

Ma che malattie genetiche di possono trasmettere da un ovocita? Se poi il bambino avesse problemi riuscirei ad amarlo davvero come se fosse tutto mio? Sì certo anche un bambino “tutto mio” potrebbe avere dei problemi, ma forse sarebbe più facile da accettare.

- Ma sai che bello azzerare tutto con geni nuovi? Magari sono meglio dei tuoi. Io piuttosto che i geni della famiglia di mio marito sono ben contenta di avere quelli di un estraneo.
- Beh ma a me piacciono i geni di mio marito!

Ma anche se facessimo l’eterologa mica è detto che rimarrei incinta.

Che poi io somaticamente non sono tanto diversa da una spagnola, non se ne accorgerebbe nessuno.

Guardo mio marito giocare con i nipoti ed è così bravo...
Mi spiace che non possa diventare papà.

Ma poi lo vogliamo davvero un figlio a 40 anni?

Giugno 2018

Dopo settimane di questi pensieri, ci sconsigliano persino di usare lo sperma di mio marito, dovremmo fare tutto con ‘materiale’ esterno… mi piaceva l’idea che fosse nostro almeno a metà.

O forse poi ci saremmo rinfacciati a un certo punto della vita di chi  è figlio.

Crescerebbe comunque nella tua pancia, si nutrirebbe di te.


Forse però mi sembrerebbe di comprare un pezzo di qualcuno. Boh come comprare un organo. Che poi è tanto diversa l’eterologa dall’utero in affitto?
Ma sì dai è tutta un’altra storia.

A volte vorresti non scegliere.
Che qualcuno arrivasse a dirti qual è la scelta migliore e lasciare che sia esattamente così.

Chi l’avrebbe mai detto che le mie possibilità e le mie scelte di oggi sono condizionate anche dal lontanissimo referendum del 2005 sull’eterologa. Ricordo che avevo chiesto alla mia amica dottoressa cosa votare, perché mi sembrava una questione troppo astratta, troppo lontana.
A volte uno non vota o non si informa perché pensa che la cosa non lo riguardi e poi ci si ritrova completamente immerso.

Stasera sono a teatro. Si rievoca in qualche modo la Natività.
Domanda a Maria: “Perché piangi?”
Maria: “piango perché so che il bambino che porto in grembo non sarà mai figlio mio.”
La rivelazione.
La prima vicenda di fecondazione eterologa è nientemeno che nelle sacre scritture.

Ci sono bambini che nascono nella pancia della mamma.
Bambini che rimangono per tanto tempo in attesa di una casa in cui abitare.
Ci sono bambini che hanno due mamme o due papà.
Ci sono bambini che nascono nel microscopio.
Bambini che nascono da un seme del loro papà
ma che hanno bisogno di un uovo di una donna che non conosceranno mai per crescere poi nella pancia di quella che chiameranno mamma.
O dal seme di un uomo sconosciuto che incontrerà l’uovo della loro mamma.
Questi bambini sono stati desiderati per tanto tanto tempo.
Come se la loro mamma e il loro papà li avessero tenuti al caldo nei loro sogni tanti mesi prima di quei nove mesi come tutti gli altri.
Forse lo spiegherei così.

Ma io a mio figlio non lo direi

E se poi vuole cercare i suoi veri genitori?

Adoro mio marito che quando gli sciorino tutti i contro dell’eterologa beato mi risponde “ma se vuoi un figlio devi mettere in conto che ci saranno dei rischi.”
E capisco che lui non ne ha pensata nemmeno una di tutte le catastrofi che mi sono immaginata io.

Luglio 2018

Ci eravamo detti di non cercare un altro ospedale, però caspita ti rode quel mancato terzo tentativo. E se fosse quello buono?

Cerco il primo appuntamento disponibile in un ospedale a caso, che tanto a questo punto uno vale l’altro e ci consigliano di accelerare i tempi se vogliamo continuare e soprattutto di fare tutto entro marzo 2019 perché con il caldo poi si risponde meno bene alle terapie. Considerando che i tempi medi di attesa sono 6 mesi dobbiamo darci una mossa.

Trovo posto dall’altra parte della città. Metropolitana, autobus. Tempo di percorrenza 50 minuti.
Un viaggio. Ma è il più veloce a rispondere, quindi prenoto.

La prima visita è con una dottoressa piccoletta giovane molto gentile che mi lascia pure il suo numero di cellulare.
Molto sinceramente ci dice che arriviamo da un ospedale eccellente e quindi non è che ci dobbiamo aspettare il miracolo da loro; ci propone un tentativo soltanto e vediamo.

Dobbiamo rifare un’altra sfilza di esami, mi trova pure un sospetto polipo che nessuno aveva mai visto, quindi si prospettano tempi più lunghi perché prima di iniziare le terapie bisogna togliere quello.
Nuovo ospedale, nuovo protocollo. Un po’ mi sconforta la sensazione di dover ricominciare tutto da capo, tipo quando ti iscrivi di nuovo all’università e non ti tengono buono neanche un esame di quelli che avevi già fatto.

Agosto 2018

Mettiamo in stand by tutte le trafile ospedaliere per goderci un viaggio strepitoso in Portogallo.

Settembre 2018

Prima isteroscopia, senza anestesia.
Sospesa perché manca poco che svengo dal dolore.
Certo che se devo fare tutto questo sbattimento e poi magari il polipo non c’è neanche…
Ma poi un polipo potrebbe dare così fastidio alla gravidanza?
Attesa.
Speravo di iniziare il terzo tentativo a settembre invece così si slitta di quasi due mesi.
Ancora attesa.

inizio a pensare di non farla questa isteroscopia. Dubbi. Mi metto a chiamare segreterie varie per capire i tempi di attesa  se ricominciassi tutto in un altro ospedale, ricevo risposte molto sommarie. Prendo un appuntamento privato con una dottoressa nuova, sperando che mi dica che non è necessario farla e si possa partire subito con la terapia ormonale. Dubbi. Perderei comunque tempo per entrare in una nuova lista d’attesa e mi hanno detto che di tempo non ne abbiamo molto. Dubbi. Disdico l’appuntamento dopo che mio marito mi persuade che non ha molto senso ricominciare da capo in un terzo ospedale.

Ottobre 2018

Seconda isteroscopia.
Anestesia generale.
La mia prima anestesia generale. Un bel viaggio devo dire, non sento nulla e mi risveglio con l’utero bello ripulito.
Pronta.

Si era prospettato un trasferimento dello sperma congelato da un ospedale all’altro.
Mi risuonava strana l’immagine di un fattorino con cappello e borsetta in giro in bici per Milano con una manciata di spermatozoi a tracolla.
Si decide che non sarà necessario.

Novembre 2018

Il terzo tentativo. Le iniezioni di Meropur, ancora.
Ormai i farmacisti sotto casa mi conoscono. Adoro la loro discrezione anche se a volte vorrei mi dedicassero qualche sguardo complice, qualche parola di incoraggiamento, se non altro per ripagarmi di quelle centinaia di euro che ho lasciato sul loro bancone in questi mesi.
Vorrei che mi dicessero che fanno il tifo per me. Loro, testimoni silenziosi ogni volta del giorno di inizio e di fine delle terapie, loro che rispondono alle mie domande quando temo di aver sbagliato qualcosa nella procedura, loro che sanno per primi tutte le malattie e le ansie di tutti noi, prima che lo sappiano i nostri amici, i nostri parenti, persino noi a volte.
Ecco, io se rimanessi incinta vorrei dirlo prima di tutto ai miei farmacisti sotto casa.

Inizia quel periodo in cui la mia pancia è un puntaspilli e la mia vagina è dedicata solo all’ecografia, ogni due giorni.

Puntura del mattino. 6.30.
Prima settimana.
Si forma una cisti.
Seconda settimana.
Bisogna aspettare che sparisca.
Terza settimana.
Si aggiunge la puntura sella sera.
Altre due settimane.
In un mese 300€ di punture e ore di sonno arretrato.
Se mai questo bambino ci sarà, nasce già in debito!
Terapia lunghissima questo terzo giro che sembra non finire mai e ogni tanto pensi di smettere.
Un mese di terapia è tanto, è molto vincolante. Punture sempre alla stessa ora.
Corse in ospedale all’alba per essere tra le prime ai controlli ecografici.
Sì perché in questo ospedale non danno appuntamento, si visita in ordine di arrivo.
Ci metto dieci giorni a capire che devo essere lì prima che apra il portone, cioè verso le 6.30.
Quindi uscire di casa alle 5.30.

Prendo la prima metropolitana, arrivo nel buio della periferia milanese a portone ancora chiuso. Entro dall’ingresso secondario, sono le 6.30, devo fare la puntura ma anche l’ambulatorio è ancora chiuso. Mi chiudo in bagno, non funziona la luce, accendo la luce del cellulare e mi faccio una puntura al semibuio. Per chiudere la siringa prima di buttarla ci metto troppa forza e non vedendo niente mi buco pure un dito.
Scendo le scale e ho guadagnato un egregio terzo posto nella coda.
Vuol dire che iniziando le visite alle 7.45, verso le 9 o 10 potrei aver finito e arrivare al lavoro con solo un’ora di ritardo.
La prima in coda è arrivata alle 6.
Quando la chiamano dice “ho già vinto per il solo fatto di essere riuscita ad essere la prima”.
L’infermiere risponde che dovrebbe tenere un premio da dare a chi vince.
Viene da Sondrio. Con il papà.
Ognuno ha il suo viaggio, prima dell’alba, per non perdere intere giornate di lavoro.
Accarezzo l’idea di dormire in macchina davanti all’ospedale l’indomani!

Michelle Obama nel frattempo dichiara al mondo che ha avuto le sue due figlie con la fecondazione in vitro.
Chissà perché persino un personaggio così famoso in fondo anche benvoluto abbia aspettato così tanto a dirlo.
Mio marito se ne esce candidamente dicendo: “ma qual è la fecondazione in vitro esattamente?”
Io (che lo amo anche per queste domande) “tesoro, quella che stiamo facendo noi”.

Con queste lunghissime attese si sentono pezzi di storie di chi ha voglia di raccontarle.
Silenzi.
Storie.
Silenzi.
C’è chi viene dalla Valtellina. Chi da Reggio Emilia. Sveglia alle 4.
C’è chi ha rinunciato a lavorare. Chi mente al lavoro. Ci si inventano ristrutturazioni, incidenti, malattie. Chi chiede cambi turno.
Chi si racconta nei dettagli i tentativi precedenti. Confronti tra ospedali diversi. Confronti su terapie diverse. Chi vuole sapere tutto. Chi non vuole sapere niente.
Chi spera di fare il pick-up il prima possibile, chi vuole ritardarlo, quasi a rimandare un’altra delusione.
Chi viene con la mamma.
Chi dice che proverà fino alla menopausa. Chi dice che questo è l’ultimo tentativo. Piuttosto adotto.
Chi non vuole parlare nè ascoltare. Poca solidarietà. Perché alla fine in fondo un po’ invidi chi ce la fa prima di te, chi risponde alla terapia meglio, e quindi preferisci il silenzio in qualche modo.

Poi ci sono gli uomini.
Alcuni sembrano all’adunata degli amici del liceo. Battute, simpatia, risate.
Forse si immaginano anche una corsa in giro per l’ospedale con il loro barattolino di spermatozoi in mano, un po’ alla “Tutti i santi giorni” di Virzì.
Altri stanno appiccicati alla loro compagna tipo ombra. Figurini accudenti che prendono il caffè per lei, fanno le iniezioni, attendono pazientemente.
Alcuni devono ancora partire dalla Calabria o dalla Sicilia e arriveranno solo al momento giusto.
In fondo per quanto ci si possa adoperare comunque ce la dobbiamo sbrigare prevalentemente da sole.

Poi arriva il giorno utile dell’ultimo rapporto - non prima di quel momento non dopo quel momento - Quello comandato. E tu il desiderio sessuale non sai più cos’è.

L’infermiera delle sette. Entra cantando Giorgia. Poi si siede al pc e dice “metterei George Michael se siete d’accordo”. Siamo d’accordo. E musica sia.

L’infermiera dell’accettazione chiede come stai prima di darti la cartella. Che cosa preziosa.

E poi prepara l’albero di Natale e il presepe. Con una cura come se fosse il salotto di casa sua.

La mattina del terzo pick-up abbiamo una coccinella rossa che cammina indisturbata nella nostra vasca da bagno… al 28 di novembre… al quinto piano…a Milano. Che sia un buon segnale?

Terzo pick-up.
Quattro ovociti.
Beh giochiamo al raddoppio questa volta.
Fin qui stiamo andando molto meglio delle altre volte.
Ma se va male stavolta allora visto che comunque le terapie hanno avuto risultati migliori facciamo anche un quarto tentativo?
- Ma non avevamo detto facciamo questo poi basta?
- Sì, però se i risultati sono migliori…

Ce ne usciamo dall’ospedale mentre la biologa prova a fecondare queste quattro possibilità.

Cari piccoletti,
quanto vorrei stare a guardarvi stanotte mentre ve ne state lì al freddo sotto al microscopio. Vorrei dirvi che io vi sto aspettando, che qui dentro la "casa” è pronta per voi, e noi abbiamo voglia di diventare la vostra mamma e il vostro papà. Ci dispiace lasciarvi lì, senza sapere nulla di voi ancora per ore e ore.
Forza, datevi di fare, trasformatevi, siate fecondi, che qui siamo impazienti…

La telefonata.
Due si sono fecondati.
Teniamo a bada l’entusiasmo. Però c’è.

Urca ma adesso me ne impiantano due?
Beh meglio due che nessuno.

La mattina del transfer, il giorno prima del mio compleanno.
Io “ma è doloroso il transfer?”
Infermiera “no è molto emozionante, goditi il momento.”
Emozionante. Se non fosse che il mio utero dev’essere più stretto di qualsiasi altro passaggio del corpo umano e quindi i tentativi di entrare sono più che dolorosi. Che a un certo punto mi viene pure il panico perché mo’ sti embrioni belli pronti dove me li mettono se non riescono ad entrare.
Poi ce la fanno.
Allo schermo la biologa mi spiega, me li fa vedere, riconta le cellule. Sono cresciuti già da stamattina presto.
Pronti.
Via.
Trasferiti.
E mi scende una lacrima, un po’ per il dolore, un po’ sì per l’emozione.

Finito il transfer aspetto 20 minuti poi mi posso alzare.
Ma non è che poi scappano fuori in qualche modo gli embrioni?!
Confesso all’infermiera che me ne vorrei stare lì sdraiata fino al 14 dicembre, data in cui si saprà come procede la cova.

Mio marito quando torniamo a casa: pensa c’è qualcosa di me dentro di te adesso!

Due settimane di malattia forzata. Le prime ore si susseguono tra tentativi di organizzare il tempo delle prossime giornate in modo razionale e noia.
Accendo la televisione. I programmi del pomeriggio mi deprimono.
Grande Fratello Vip.
Ecco, questi qua nella casa sono annoiati quasi quanto me.

Mio marito - adesso devo dire a tutti: tenete a bada l’euforia, prima che a qualcuno venga in mente di mettersi a sferruzzar babbucce.

Che secondo me comunque la nonna Pinuccia ha tramato da “lassù” in qualche modo perché io arrivassi fin qui. E io comunque quell’ulivo della chiesa del santantonio me lo sono portata sempre in ospedale che non si sa mai.

Terza notte. Una cistite epica.
Si susseguono giornate di mal di pancia, pruriti , infiammazioni. Ovuli 3 volte al giorno. Ultime punture.
Il desiderio di tornare ad impossessarmi della mia vagina, a poterla pensare come luogo di piacere e non di cura.

Buttiamo via le siringhe che non ci servono più. 6 confezioni. Circa 100 siringhe. Fanno impressione.
Quelle in frigo però le conservo ancora per scaramanzia. Non fosse altro perché costano 20 € ciascuna.

Le giornate passano abbastanza lentamente nonostante la meticolosa programmazione di cosa fare, comunque sono lunghe e comunque il pensiero è sempre là.

Che se ci si potesse vedere dentro quanto si risparmierebbe in visite esami ed ansia? Un bel corpo umano trasparente per vedersi dentro.

Dicembre 2018

In queste due settimane si impara forte il senso dell’attesa.
Questo avvento prenatalizio che è il più avvento che abbia vissuto nei miei 37 anni.

Il pensiero che comunque andrà verrà Natale, e comunque andrà lunedì quando entrerò a scuola ci saranno i bambini, che so che saranno felici di vedermi, e non vedo l’ora di sbaciucchiarmeli e chissà quanto sono cresciuti in due settimane che non li vedo.

Con il passare del tempo la paura. La paura che vada male. La paura di non avere forza abbastanza se andasse male.

La trepidazione. Quel senso di eccitazione che si spinge finchè non arrivi con il pensiero sulla cresta della montagna e lì si ferma. Per non guardare giù. Per cercare di governare le illusioni di qualcosa che non so se accadrà.

Lui: Ma che pensieri hai? Stai lì a pensare sei incinta non sei incinta?

Amore mio, non è un pensiero razionale, non ho qualcosa sui cui riflettere, è più un’immagine, uno stare a vedere il tuo pensiero immaginale che si proietta nei prossimi giorni, in quello che potrà o non potrà succedere proprio come stessi premendo il tasto “FFW” sul vecchio registratore.

E stai ad ascoltare qualsiasi segnale del tuo corpo, sapendo anche che comunque non riuscirai ad interpretarlo. Però tutto si amplifica, ogni dolorino, fitta, sensazione, si fa molto precisa e impari a localizzarla per bene anche se non ti serve a niente.

Chiamo l’ospedale per spiegare che tipo di dolore sento nella speranza che mi dicano precisamente cos’è.
“Potrebbe essere l’arrivo del ciclo o l’attecchimento degli embrioni.”
Perfetto, ne so quanto prima.

14 dicembre 2018.
Le beta. Esami del sangue per vedere se sono incinta.
Fai l’esame al mattino e poi ti chiamano al pomeriggio per dirti il risultato.

La telefonata. Beta positive, valori molto alti.
Secondo controllo qualche giorno dopo. Beta raddoppiate.

L’infermiere ci raccomanda di aspettare a festeggiare e noi ci andiamo davvero molto molto cauti.
Però l’eccitazione inizia a salire.

28 dicembre.
Si vede il cuoricino che pulsa.
È un pallino bianco che si muove nell’ecografia, palpita proprio.
È molto emozionante.
Ci siamo entrambi lì a vedere il nostro piccolo uovo che prende forma.
È uno solo, e per un attimo ti chiedi che fine abbia fatto l’altro, ma va bene così.
Saranno nove mesi di salto nel vuoto, di una maternità che non ho più osato neanche immaginare, ma anzi ho cercato di rimuovere, per proteggermi.
Nove mesi in cui la paura che qualcosa vada storto mi accompagnerà ad ogni respiro.
Perché è stato un desiderio troppo intenso e mi spaventa lasciarlo andare.
Non riesco a pensare come sarà davvero sentire questo bambino che crescerà dentro di me
e mi spaventa persino chiamarlo “bambino”, per paura che non nasca.
Non riesco a immaginarmi come sarà.
Accarezzo l’immagine del suo cuoricino… e iniziamo a chiamarlo così…
“Cuoricino – Cino”, in attesa di sapere se sarà, e se sarà maschio o femmina.
Increduli, spaventati e felici, ci teniamo stretto questo puntino palpitante, questo desiderio che si sta facendo realtà.

Postfazione

24 mesi. Una stagionatura degna del miglior parmigiano più che una gravidanza.
La gravidanza da PMA non dura 9 mesi.
Può durare anni. Due anni nel nostro caso sono il tempo che intercorre da quando ci hanno detto che non avremmo avuto figli in modo naturale ad oggi, che abbiamo tra le braccia Pietro...Passando per quando ci hanno comunicato a metà percorso che nemmeno con la PMA avremmo potuto farcela.
E invece hanno sbagliato.
Ma ci andrò a salutare quei medici che in due minuti ci hanno detto di lasciar perdere.
E come se ci andrò.
La gravidanza da PMA ti fa sentire vulnerabile in ogni secondo, altro che senso di onnipotenza creativa femminile, non ti dà neanche il coraggio di immaginarlo questo bambino per paura che qualcosa vada storto.
Non so se sia stata superpotenza scientifica, miracolo o intervento di forze superiori...per me è la vita che ha vinto, la vita che irrompe quando tutto sembra impedirlo.
Spero che l’attesa, le delusioni, l’ansia di questi 24 mesi ci abbiano allenati per essere genitori non tanto migliori quanto sereni, genitori felici.
Da questi 24 mesi mi porto a casa la pazienza, la capacità di vedere le cose da altri punti di vista, il rispetto per le scelte personali, senza giudizio, l’importanza del silenzio come conforto.
Vorrei che se ne potesse parlare, che se lo fa Michelle Obama in un libro o se lo canta j-Ax sembra una cosa fighissima, ma poi per tanti è ancora un tabù misto di sensi di colpa e allora oltre allo sbattimento c’è pure quel dover far finta di niente, quel rispondere con sorrisini di circostanza a chi si ostina a chiederti quando farai un figlio, quell’inventarsi mille scuse al lavoro per le terapie...
Che se ne parli con naturalezza.
Che si dica che i genitori da PMA non sono meno genitori degli altri, ma sono genitori stagionati, come il miglior parmigiano.

Commenti

  1. Magnifico... Toccante.. Spiritoso... Emozionante... Ma ancor più ricco di speranze per chi... Ancora non è riuscito dopo anni di tentativi.... Mille grazie... Un abbraccio e mille Auguri per un Roseo futuro a tutte e a tutti quelli che come noi vivono questa odissea....

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  2. Grazie di cuore per aver voluto condividere la vostra storia. Il vostro lieto fine mi fa ben sperare che anche io quest'anno possa ricevere lo stesso regalo di Natale che avete ricevuto voi esattamente due anni fa. Domani mattina le beta... incrociamo le dita!

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  3. Il tuo racconto è fantastico, sei riuscita con parole semplici a spiegare tutto ciò che di più complicato rappresenta questo percorso. Sono veramente felice per te e spero che tutte possano farcela al più presto.

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